La poetica neoclassica in Italia (1950)

La poetica neoclassica in Italia, «Belfagor», a. V, n. 1, Firenze, 31 gennaio 1950, poi in W. Binni, Classicismo e neoclassicismo nella letteratura del Settecento, Firenze, La Nuova Italia, 1963.

LA POETICA NEOCLASSICA IN ITALIA

Nella poesia delle Grazie il lungo e complesso movimento neoclassico italiano trova la realizzazione piú alta e il superamento delle sue aspirazioni: allo stesso modo nella poesia di Hölderlin e di Keats la tormentosa tensione romantica verso una bellezza imperitura trova la sua superiore soddisfazione in linee candide e appassionate. Certo la poesia neoclassica, che in Italia sorge sullo stimolo di un movimento culturale internazionale dovuto alla nuova vitalità preromantica, acquista la sua forza maggiore quando si alimenta di sensibilità schiettamente nuova pur facendosi a un certo punto, sulla rottura di linee ben definite, momento distinto e contrastante con alcune precise tendenze romantiche. Mosso da una sostanziale fede romantica in un assoluto di bellezza senza tramonto, in una perfezione che sorge sulla coscienza di una caducità dolente e viene ritrovata nelle forme e nei gesti perfetti ed ideali di una rinascita dell’arte antica, il neoclassicismo vive nelle sue condizioni piú alte quando la passione romantica soffonde di calore una impeccabile linearità, e una segreta furia freme nel candore di forme pacate e consolatrici.

Ma per giungere a questa altissima sintesi letteraria, che in Italia è rappresentata dal Foscolo e soprattutto dalle Grazie, precise cristallizzazioni di ideali estetici e di precetti tecnici, precisi indirizzi di linguaggio su giustificazioni anche diverse (cartesianismo, Arcadia, illuminismo sensistico) prepararono in un largo movimento di gusto, specie nel secondo Settecento, una linea distinta dal piú integrale preromanticismo, teso, sia pur rozzamente e con numerosi equivoci, alla esaltazione poetica di una sentimentalità scoperta e valida per la sua intensità, come preludio alle forme romantiche del concreto, della suggestione mistica, dell’ineffabile musicale. Indubbiamente molto spesso nella storia complessa del secondo Settecento, di quegli anni pieni di fermento (quando in Italia si intrecciano un illuminismo ritardato e raccorciato con gli spunti di una nuova sensibilità preromantica e di un preciso gusto neoclassico), sintesi personali si operano su elementi preromantici e neoclassici (e magari su residui arcadici e illuministici) – si pensi al Pindemonte e al Bertola – ed è difficile distinguere la grazia di un arcade dell’ultima maniera dalla grazia tenera e sentimentale degli imitatori di Gessner e da quella di cui parlano il Mengs o piú tardi la Teotochi-Albrizzi.

Ma, pur nella identità dei termini e nella chiara mescolanza di motivi, basta pensare in concreto al «sublime» per indicare le direzioni divergenti delle due poetiche nelle loro punte piú pure. Per i preromantici l’idea del sublime è quella delle immagini ossianesche (notti tempestose, immani catastrofi della natura, scene di orrore macabro: la natura in tormentata tensione, la sensibilità eccitata e valorizzata da orrore e dolore), per i neoclassici il sublime è il passo sicuro ed uguale di Apollo che scende tremendo e sereno («Mettean le frecce orrendo / su gli omeri all’irato un tintinnio / al mutar de’ gran passi; ed ei simile / a fosca notte, giú venia»), è un gesto statuario in cui la tensione e il movimento sono sublimati in calma superiore, contenuti sotto un fremito superficiale. Tale è l’immagine del mare che se pure agitato in superficie è nel suo fondo perennemente tranquillo, e tale è quella contraria e simile del dio irato e minaccioso, ma impassibile nel gesto superbo e divino, che ricorrono, non per caso, in vari teorici e poeti neoclassici.

Edle Einfalt und stille Grösse, contrappone idealmente Winckelmann alla definizione della Poesia di Diderot (valida anche per le punte ideali del piú moderato preromanticismo italiano) come di una qualità che ha in sé «quelque chose d’énorme et de barbare».

Il gesto pregno di significato spirituale, di intima e sublime calma, corrisponde, nella sua volontà di traduzione immortale, alla suprema saggezza colorata stoicamente in David o edonisticamente in Mengs, ispiratrice dell’alta dolcezza delle Grazie foscoliane che il variare di dolori e illusioni traducono in un gemito o in un sorriso ugualmente dolce:

... che sonanti

rimembran come il ciel l’uomo concesse

alle gioie e agli affanni, onde gli sia

librato e vario di sua vita il volo,

e come alla virtú guidi il dolore,

e il sorriso e il sospiro errin sul labbro

delle Grazie, e a chi son fauste e presenti,

dolce in core ei s’allegri e dolce gema.

Mentre si deve dunque affermare per il neoclassicismo, nelle sue posizioni piú profonde, la qualità di corrente nata nel grande alveo preromantico, si deve però ben distinguere la sua particolare precisione di ideali estetici o, meglio, poetici, perché, se il suo contributo alla storia dell’estetica è scarso (chiuso nel forte limite edonistico-moralistico), ben altra importanza esso ha avuto nella creazione di un gusto e di una poetica operante in tecniche diverse, ma con principi omogenei ritrovabili in quelli che furono i teorici del neoclassicismo figurativo e che rappresentano, fra il ’60 e l’80 circa, la chiarificazione e l’unità dei vari tentativi eclettici e classicistici attuati anche precedentemente durante il secolo nel campo figurativo e nel campo della poesia. Con essi la poetica neoclassica assume la sua vera validità, appoggiata e ispirata come è dalle arti figurative, dalle arti del disegno, come essi dicevano, quasi rilevando per noi il predominio della linea sul colore, della figura sul pittoresco sfumato del rococò.

Come il preromanticismo attraverso il suo impeto sentimentale e contenutistico aveva cercato cadenze musicali (e il romanticismo tenderà tutto alla condizione musica, massima espressione dell’ineffabile, dell’unitario), cosí il neoclassicismo si arricchisce di immagini pittoriche e scultoree, adegua la sua poesia alla linearità, al disegno, a quell’incontro ideale e stereotipo Raffaello-Correggio-Tiziano in cui Raffaello vinceva per la sua purezza espressiva, per la sua vicinanza (pur imperfetta rispetto ai Greci) alla scelta della bella natura, alla perfezione del bello ideale.

E sono questi i massimi canoni di un gusto che reagiva inorridito (ne possono essere prova molte risposte del concorso di Mantova del 1781 sulla decadenza del gusto nelle lettere) a quell’esaltazione preromantica dell’istintivo, del caratteristico, della espressione libera, violenta ed efficace, che doveva sembrare una specie di poetica del brutto, una poetica profanatrice dell’unità di umano e divino nelle forme di una bellezza composta secondo la figura umana, e idealizzata, scelta in contrapposizione con i caratteri vivi e realistici di una drammatica e brutale vitalità.

Il mito del bello ideale, l’ideale antropolatrico della bellezza della figura umana idealizzata e portata a perfetta proporzione (si pensi al massimo modello per i neoclassici dell’Apollo del Belvedere, e alla descrizione, alla appassionata poesia in prosa che gli dedica il Winckelmann) sono proprio al polo opposto della poetica preromantica che aspira alla creazione di caratteri intensi, magari al carattere semiferino di Calibano (e proprio dello shakespeariano Calibano il Baretti fa una preromantica esaltazione contro il classicista Voltaire nel suo importantissimo Discours sur Shakespeare et Monsieur de Voltaire), per avvicinare l’umano all’espressione piú violenta ed istintiva di una selvaggia natura. Validità della poesia nel suo adeguarsi al ritmo della natura (il grido del giovane Goethe di fronte ai personaggi di Shakespeare: «Ich rufe: Natur! Natur! nichts so Natur als Shakespeares Menschen!»), proprio nel suo spiegarsi piú sfrenato e sentimentale per i preromantici: per i neoclassici validità della poesia nella sua espressione di una umanità ideale viva nell’ordine e nella perfezione.

E non importa ai fini della poetica e della poesia se poi dai presupposti preromantici si svolse la grande civiltà romantica e se i principi neoclassici si isterilirono (ma dopo altissime sintesi) in gessi di accademia, perché anche essi dettero offerte concrete, furono funzione di concreta poesia: e non solo rispetto al piccolo classicismo di origine rococò e illuministica, ma anche nei riguardi dei nuovi miti di Chénier o Foscolo o Goethe.

Nella nostra poesia settecentesca non eran mancati tentativi diversi di classicismo dopo il trionfo e l’esaurimento della civiltà secentesca (che pure aveva avuto forma di un suo classicismo), e cosí, per prima, sorretta da una razionalistica esigenza di immagine chiara e distinta e da una notevole ripresa di pensiero rinascimentale nel Gravina (l’esaltatore di Omero, di Ariosto, ma anche del «casto e frugale» linguaggio del Trissino), la poetica dell’Arcadia aveva insistito nella ricerca di forme precise e compendiose in cui stringere lo sfumato e il «non so che» rococò, in cui ridurre certa enfasi immaginistica di eredità barocca e non barocca. E benché mossa da una giustificazione ben diversa da quella del vero movimento neoclassico nella sua novità unitaria, la poetica arcadica aveva iniziato quell’uso di forme classicistiche per una lingua lucida e chiara, che attraverso tutto il secolo accomuna esperienze di nuovo classicismo su piani e toni diversi.

Piú tardi la poesia del periodo illuministico, dagli Amori del Savioli alle prime Odi e al Giorno del Parini, realizza su suoi indirizzi essenziali (edonismo e complesso impegno estetico-moralistico) un suo particolare classicismo, a cui collaborano piú validamente le prime suggestioni delle Tavole di Ercolano (ma queste potevano ancora arricchire decorativamente un rococò prezioso e stringato a cui non ripugnava contemporaneamente la stilizzazione delle lacche cinesi) e quel gusto di pietra incisa alla cui misura preziosa ed edonistica si riduceva spesso anche l’influsso della pittura di Ercolano nell’accettazione delle sensibilità rococò.

Elegante edonismo quello del Savioli, ad esempio, ben lontano dalla giustificazione ideale del neoclassicismo trionfante, ma importantissimo come scuola di poetica nella sua ricerca di aggettivazione squisita, di disegno incisivo e rilevato che di fronte alla genericità arcadica prepara modi di discorso poetico vivo nella sua eleganza fin nelle Odi del Foscolo.

Ma piú decisamente nel Parini il comune motivo sensistico utilizza a scopi di rappresentazione efficace un classicismo sempre piú cosciente di un’unica tradizione poetica italiana (in contrasto con l’ingresso dell’aborrito preromanticismo nordico), e sicuro del proprio valore di lingua perfetta, capace di sottrarre alla rovina del tempo le immagini sensoriali di una realtà solo cosí rappresentabile poeticamente in un’opera aristocratica e civile.

Il Parini venne poi allontanandosi sempre piú da una semplice sommarietà miniaturistica coll’impegnarsi in un disegno piú largo e completo, in un senso decorativo altissimo e di composizione perfetta, anche se sorridente e piacevole (già citabile è la scena finale dell’Educazione a cui si può avvicinare un «Achille e Chirone» ercolaniani in un’interpretazione ancora però lontana dal gusto severo di un neoclassicismo piú tardo: «Tal cantava il Centauro. / Baci il giovin gli offriva / con ghirlande di lauro. / E Tetide che udiva / a la fera divina / plaudia da la marina»).

E sempre piú egli tese il suo classicismo sensistico-illuministico (perfezione classica per captare e rendere perspicua la realtà sensoriale e renderla efficace) verso un piú gratuito amore di perfezione, verso un tono di saggezza che partendo dal suo ideale civile di equilibrio («né s’abbassa per duolo né s’alza per orgoglio») viene a coincidere con un primato della poesia e della bellezza nella sua forma di classico decoro e di compattezza interiore e raggiunge la purezza e il candore neoclassico superando il piú diretto utilitarismo illuministico, a cui il classicismo aveva pur fornito un aiuto indispensabile di precisione e di chiarezza.

Il nuovo ideale di misura e di calma, di semplicità nobile e di tranquilla grandezza, vive ormai concretamente, anche se raggiunto attraverso un maggiore impegno civile, nella figura della Musa o nei lineamenti delicati e perfetti di Silvia «umana e pudica».

Nei contemporanei e negli scolari del Parini e del Savioli (quelli che il Carducci chiamò la scuola classica del secolo XVIII) il neoclassicismo si afferma e si precisa a mano a mano che l’influenza di Winckelmann e dei suoi apostoli si fa sentire, aiutata dalle sollecitazioni visive e figurative, sempre piú numerose, e dalla diffusione del nuovo gusto in una moda compatta (da «Luigi XVI» a stile impero) che permea ogni aspetto della vita dell’ultimo Settecento complicandosi con l’amore rivoluzionario per la virtú romana e per il plutarchismo, che costituiscono sin nell’Alfieri una delle vie di ingresso del suo speciale classicismo.

D’altra parte, entro forme di esuberante eclettismo (per mancanza di forza personale, e viceversa anche per avida curiosità che conforta la ricchezza eccezionale di quegli anni in cui combattono ed entrano in sintesi residui arcadici, illuministici, con affermazioni neoclassiche e stravolte o sincere simpatie preromantiche), cresce e si individua piú chiaramente, respingendo i modi convulsi di un estremismo preromantico, l’amore per una costruzione lineare, a composizione nitida e spaziosa di isolate e armoniche figure, in cui si concreta un motivo poetico su sfondi sobrii e poco coloriti: il disegno prevale sul colore, la figura sulla descrizione, l’aggettivazione elegante di stampo classico si impone spesso anche senza specifica funzione, per gusto di rilievo preciso e nitido.

E queste forme semplici e pure ben diverse da quelle sommarie di una miniatura rococò, vengono cercate per tradurre condizioni intime di ricchezza spirituale in gesti essenziali e pacati, simboli appunto di forza stoica, di meditativa saggezza superiore ad ogni tempesta sentimentale. Assai spesso si tratta di pose meno interessanti artisticamente della vivacità briosa di certo manierismo rococò di certe soluzioni di canto arcadico, e del rozzo lirismo preromantico, come assai spesso la «nobile semplicità e la calma grandezza» di Winckelmann si traduce in accademica vuotezza o in scenografia. C’è Canova, c’è David, ma c’è Thorvaldsen, e cosí ci sono Cerretti, Paradisi o Lamberti accanto a Foscolo o a Monti.

Scenografico e coreografico (come lo disse Attilio Momigliano), il Monti proveniva al neoclassicismo da un manierismo eclettico e al suo amore di un sublime, cercato in un’Arcadia grandiosa e baroccheggiante o in provvisori incontri Dante-Klopstock-Varano, i winckelmanniani romani offrivano validissimi stimoli ed esempi per una posizione piú coerentemente grandiosa.

Passata l’epoca della pittura pompeiana, la mitologia assumeva un’aria piú severa, piú antica (il «sapit antiquum» viene dispensato in maniera piú guardinga), e mentre il Monti operava le sue prime sintesi neoclassiche, David, con il giuramento degli Orazi del 1784, apriva l’epoca del neoclassicismo austero ed eroico.

Dalle forme sorridenti, edonistiche e graziosamente stilizzate della mitologia savioliana si passava a velleità eroiche nell’esaltazione del gesto statuario («Vide il pianto del tuo ciglio / e il suo fulmine impugnò») rinforzato in maniera equivoca, ma efficace, sia dal suo intimo appello barocco («Rapisti al ciel le folgori, / che debellate innante, / con tronche ali ti caddero / e ti lambir le piante!»), sia dal suo eclettico amore per decorazioni ferme, storiche, all’Appiani, e per una specie di prospettiva aerea e di colori movimentati che lo riavvicinano al manierismo romano e ad un’Arcadia guidiana e pindarica.

Ma sia pure con mezzi spesso eterogenei, e con vocazione retorica che lo distingue dal mondo piú intimo e dal gusto piú profondo di un Foscolo e di uno Chénier, proprio il Monti, con la sua poesia progressivamente sempre piú neoclassica, conduce il misurato classicismo settecentesco italiano alle forme grandiose di apoteosi e affresco che segnano il vertice di diffusione del movimento internazionale. E d’altra parte, mentre le teorie di Winckelmann sulla allegoria mitologica sembrano formulate apposta per l’opera montiana e l’offerta di quell’alto sogno archeologico e mitologico veniva accolta proprio in sede poetica come offerta di lingua di bellezza ideale, nella traduzione dell’Iliade e nella Feroniade, il sublime neoclassico, la nobile semplicità e la calma superiore scendono dagli affreschi piú accesi d’altre opere montiane in una perfetta funzione neoclassica. Proprio nella Feroniade del Monti il neoclassicismo si è interamente fuso in un placido ritmo, senza fragore, in un gesto pacato ed essenziale, e in quella poesia poco intensa, lievemente pacata e monotona, le suggestioni del nuovo gusto hanno trovato un’ispirazione capace di renderle vive in una coerente espressione:

In quel silenzio universale anch’essa

adagiossi la dea vinta dal sonno

che dopo il lagrimar sempre sugli occhi

dolcissimo discende, e la sua verga

le pupille celesti anco sommette...

Tuttavia la poetica neoclassica in Italia non esaurí le sue offerte in una letteratura di decoro e di nostalgia archeologica per quanto sollevata in diversi e vari risultati personali, e nella potente sintesi del Foscolo mantenne le sue linee essenziali, e raggiunse anzi la sua massima esemplarità quanto piú lí veniva alimentata di calda spiritualità romantica. Già nell’Ortis (dove il preromanticismo foscoliano tocca il suo vertice in prepotenza autobiografica e rottura di semplice decoro classico) si sono sempre notati momenti neoclassici e nelle Odi si è accertata una precisa applicazione neoclassica in uno speciale tono di eleganza e di grazia ironica posseduto anche in maniera eccessiva intorno al centro ispirativo della bellezza consolatrice («L’aurea beltate ond’ebbero / ristoro unico ai mali / le nate a vaneggiar menti mortali»), che però toccano anche il margine di un pericoloso estetismo.

Ma soprattutto dopo i Sepolcri, avvivati dal vichiano senso della storia, e dalla rivolta antiilluministica del sentimento (storia e poesia), la certezza del primato della poesia (raggiunto nel carme non sull’assenza del dolore e dell’esperienza vitale, ma sul suo limite piú alto e in condizioni sempre piú romantico-neoclassiche) condusse il Foscolo ad un ulteriore esame della sua poetica, desideroso com’egli era di concentrare la sua forza lirica sull’incontro di sensibilità e perfezione, con un valido strumento di trasformazione della sua ricchezza interiore su di un metro di misura e di armonia potentemente giustificata. Misura e armonia corrispondenti a serenità e virile calma, in cui ritornava l’eco di una disciplina pariniana («orecchio ama placato / la Musa e mente arguta e cuor gentile») e si realizzava il fiore delle teorie neoclassiche dell’unione inscindibile di perfezione e di «vero e bello», di serenità senza freddezza («eterna giovinezza», ma anche «molle giovinezza», dirà per i marmi del Canova) a cui aveva servito, come distacco dall’estremismo ortisiano, la saggezza ironica e sterniana di Didimo Chierico.

Ed è infatti nello stesso centro animatore del capolavoro incompiuto che gli ideali del neoclassicismo vengono esaltati nella loro massima purificazione. Tutte le teorie della grazia e del sublime, tutta la pratica di una esplicita catarsi attraverso la forma perfetta si fondono nel motivo delle Grazie consolatrici e serenatrici: il loro velo è la concreta immagine dell’aspirazione piú alta della poetica neoclassica.

Il Foscolo piú maturo, in una chiara coscienza del suo rapporto con il tempo letterario e delle proprie esigenze artistiche, discusse la poetica neoclassica e ne assunse i fondamentali motivi perfino con un certo zelo di propositi e di riferimenti ortodossi: menzione onorevole del classicismo graviniano nella sua austera teoria, presenza dei nomi di Canova, Fabre, Poussin come termini di un gusto preciso.

Ma la china facile di quel gusto verso un decorativismo freddo e accademico, verso un funerario candore, è evitata in un uso piú profondo e romantico di quei principî, di quei modi letterari pure assunti con tanta decisione e con tanta convinzione del loro valore. Cosí, partendo dal predominio delle arti figurative, dal principio della influenza reciproca delle arti con prevalente utilizzazione visiva (la poesia offre soggetti alla pittura), il Foscolo arriva a quella intuizione e pratica di poesia come sintesi di musica e di pittura («arcana armoniosa melodia pittrice» come dice nelle Grazie), che contamina fecondamente l’aspirazione neoclassica al visivo con quella romantica al musicale, e tende a quell’incantevole realtà di linguaggio labile e perfetto, impalpabile e sensuoso, capace di rappresentare un’intensa e segreta voluttà spirituale (da far quasi pensare ad un Keats meno giovanile), sorretta da un disegno perfetto senza soluzioni di continuità:

Ma se improvvise rimembranze Amore

in cor le manda, scorrono piú lente

sovra i tasti le dita, e d’improvviso

quella soave melodia che posa

secreta nei vocali alvei del legno

flebile e lenta all’aure s’aggira.

E partendo dal didascalismo, che nel neoclassicismo intransigente assume un tono piú assorto e piú astratto che non nel caldo civismo illuministico, il Foscolo, che pure ripete nella Ragion poetica delle Grazie che «fine essenziale della poesia è di ammaestrare dilettando», trova poi un’origine piú profonda e romantica di «poesia e verità» nel cuore, in cui «eccitando velocissimamente molti e varii affetti caldi ed ingenui... da questi scoppia il vero ed il bello morale». «Beauty is truth, truth beauty» dirà Keats, e in questa integralità neoclassica di bello e vero ben si avverte l’incontro con la piú generale aspirazione romantica ad una poesia tutta estetica e piú che estetica.

Ugualmente, dalla neoclassica definizione della grazia e dalle sue precedenti applicazioni, il Foscolo giungerà ad un essenziale incontro di quella con l’idea dell’armonia, di cui egli possedeva una nozione profonda: «L’armonia dell’universo di cui gli uomini tutti hanno un sentimento secreto benché non possa esprimersi, è diffusa anche nella vita dell’uomo». Al di là del semplice sublime gesto, che pure non manca nelle Grazie, il Foscolo saliva al mito e alla coerente poetica della poesia-consolazione e risolveva le incertezze fra grazia e sublime (uno dei punti piú incerti nelle esposizioni di Winckelmann, Mengs, Milizia, D’Azara, Fea, ecc.), nutrendo grazia e armonia del succo piú denso del sublime preromantico depurato dalle forme di non-finito, di tumultuoso, in cui quello si era rudemente costruito nella lingua incerta ed equivoca dei traduttori o in quella esaltata e confusa dei preromantici piú audaci.

Quante volte in quelle brevi esclamazioni dolenti, che ravvivano contesti piú fiacchi ed ornamentali nelle suture narrative e nelle parti troppo scopertamente allegoriche, si sente, quasi filtrata nella misura neoclassica, l’eco segreta delle apostrofi gravi e tetre dell’Ossian cesarottiano, delle cupe cadenze pessimistiche delle Notti dello Young!

E, piú profondamente, la presenza della triste realtà non era evitata come nelle Odi, e alla beatitudine espressiva, a quella musica labile e perfetta in cui si sublimava la poetica neoclassica, dava vita, come intimo fermento, come assicurazione contro ogni caduta estetistica, quel motivo di dolore e consolazione, quel doppio polo di interna dinamica, senza il quale la poesia delle Grazie decadrebbe nei limiti di nobiltà poco profonda della Feroniade, in decorazione illustrativa ed esangue come nei poemi di Jacques Delille. Dinamica interna ben visibile nello stesso passaggio dai primi frammenti omerizzanti e archeologici ai frammenti del 1812-13, nei quali fra l’altro è piú profondo il motivo ellenizzante che della cultura neoclassica segna il limite estremo e piú coerente ed è anche in profondo un legame con il romanticismo desideroso di bellezza assoluta. Il Foscolo fu infatti il vero poeta filologo, il vero «greco» di quell’epoca di cultura classica in cui troppo spesso dizionari mitologici, stampe e traduzioni saziavano la sete di antico di tanti scrittori. Ed è quella dinamica interna che provvede l’attenzione alla melodia pittrice del duro e nutriente senso della «rugosa realtà» vichiana, del senso della sorte umana fecondamente dolorosa e della necessità di una grazia consolatrice, vuota e sterile però se ridotta ad una vuota innocenza.

Elegia ed idillio si fondono ben oltre i termini in cui ciò avveniva fra preromanticismo e residui arcadici, e la grande poesia delle Grazie, mentre realizzava i principî della poetica neoclassica, li superava romanticamente. E il mito antico (fiore della teoria winckelmanniana) si levava con una forza nuova ed intera, non piú illustrativa ed ornamentale:

Mesci, odorosa Dea, rosee le fila;

e nel mezzo del velo ardita balli,

canti fra ’l coro delle sue speranze

giovinezza: percote a spessi tocchi

antico un plettro il Tempo; e la danzante

discende un clivo onde nessun risale.

Le Grazie a’ piedi suoi destano fiori

a fiorir sue ghirlande: e quando il biondo

crin t’abbandoni e perderai ’l tuo nome,

vivran que’ fiori, o Giovinezza, e intorno

l’urna funerea spireranno odore.

Mito poetico di un’altissima civiltà letteraria maturata in una complessa storia, ricca di una tendenza creativa di nuovi miti sensibili e perfetti: vicino, la danza lieta e pura della Clarina pindemontiana, piú avanti il passo malinconico e confidente della Nerina del Leopardi.

Dai primi accenni di un tenue classicismo arcadico, dalle linee edonistiche ed utilitaristiche del classicismo sensistico ed illuministico, portate a maggior purezza nella poesia pariniana, dalle teorie e suggestioni letterarie del Winckelmann (nella complessa civiltà europea di un gusto coerente dalla moda alle piú alte espressioni artistiche), si era svolta cosí, entro i compromessi tipici del secondo Settecento ed in coincidenza del movimento preromantico – specie nelle sue pause e nei suoi ripiegamenti –, una poetica che trova la sua superiore funzione nel Foscolo come altrove in Chénier, o Goethe o Keats. E cosí nel sogno neoclassico, che poteva condurre al gelo accademico di Thorwaldsen, al falso eroico di Carstens, al vuoto decoro di Delille, era viva l’offerta di linee di poetica essenziali ad alcune forme della piú alta poesia del primo Ottocento, e non la semplice premessa di una assurda restaurazione archeologica.